Dazi Usa, il Veneto oltre il caos: «Puntiamo a raggiungere nuovi mercati»


di
Gloria Bertasi e Silvia Madiotto

Cinque anni fa cali a doppia cifra. Le imprese si preparano a canali alternativi, dall’India agli Emirati Arabi

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Essere creativi. Aggirare l’ostacolo. Le imprese venete si sono già dovute inventare nuovi canali e diversi mercati, quando è servito. E se sarà necessario lo faranno anche con i dazi di Donald Trump. Se il presidente Usa proseguirà con la promessa (minaccia) di imporre un’imposta molto elevata sui prodotti che arrivano dal Vecchio Continente, come già per Messico e Canada (rinviati ad aprile), bisognerà pensare ad altre soluzioni. Il Veneto teme il caos ma le imprese non stanno ferme il mondo è vasto, ci sono mercati già molto interessanti come Brasile, India, Cina, Sudafrica, Arabia Saudita ed Emirati. L’export veneto verso gli Usa vale, in prodotti diretti, 7,6 miliardi (dato 2023): miliardi sottoposti in questi giorni a una scossa tellurica eccezionale e potenzialmente micidiale. La parte più sostanziosa è quella delle macchine e apparecchi meccanici, seguita da occhialeria e agroalimentare. Le imprese guardano con attenzione al dialogo fra Usa e Ue: da quei tavoli dipende anche il futuro del tessuto produttivo del Nordest. Quanto potrebbero impattare è ancora difficile da stimare, ma si possono guardare i risultati dopo i dazi Usa imposti nel 2019-20: solo per la filiera agroalimentare era stato registrato un 15% di calo delle esportazioni della frutta, del 28% su carni e prodotti ittici, del 19% su formaggi e confetture, 20% sui liquori e 6% sul vino.

Le voci delle imprese

Raffaele Boscaini, presidente di Confindustria Veneto, in linea con il presidente nazionale Orsini, apre un altro fronte: «Il sistema industriale veneto deve rivedere e diversificare le proprie filiere per mettere in sicurezza le imprese. E c’è sempre più bisogno internazionalizzare, che non è solo vendere all’estero, ma avere una rete strutturata di sviluppo. È necessario ridare spinta agli investimenti, oggi ai minimi storici. Serve garantire un maggiore accesso al credito per le Pmi, con tassi agevolati e garanzie pubbliche, per avere risorse utili da utilizzare per lo sviluppo di tecnologie innovative e nella riduzione dei consumi energetici. Manteniamo comunque i nervi saldi, per ora sono proclami».
«I dazi non fanno bene a nessuno, né a chi li mette né a chi li paga – premette il presidente di Unioncamere Antonio Santocono -. Se dovessero essere imposti dazi così alti il Veneto deve pensare a riorientarsi. Cercheremo altri canali per i prodotti più a rischio, come agroalimentare, soprattutto di alta gamma, e meccanica. Nel caso della Russia, a subirne le conseguenze è stato soprattutto il sistema agroalimentare: il made in Italy è stato sostituito con l’italian sounding. E il rischio è che, provata la copia, da lì non si torni più indietro. I gruppi di grandi dimensioni possono pensare anche di spostare una parte della produzione negli Usa, le nostre Pmi non lo possono fare: dobbiamo riorientarci su altri Paesi». Il presidente della Camera di commercio di Verona, Giuseppe Riello richiama alla prudenza: «Bisognerà vedere se i dazi saranno specifici o generici. Abbiamo prodotti di altissima qualità nell’agroalimentare e ciò comporterà un effetto negativo per chi acquisterà prodotti di nicchia negli Usa perché costeranno di più, ma non per chi li produce. Chi acquistava l’Amarone, per esempio, continuerà ad acquistarlo perché già costava molto. I problemi ci saranno per altri settori come quello dell’acciaio».




















































Non siamo «impiccati»

Secondo Giancarlo Corò, professore di Economia applicata a Ca’ Foscari, «l’Europa è giustamente preoccupata per l’impatto che avranno i dazi, ma non siamo “impiccati” all’economia americana come Canada e Messico, dato che gli Usa sono poco più del 15% delle esportazioni». E il Veneto? «Gli Usa sono il nostro principale mercato. È vero che per esportazioni dirette sono superiori quelle in Germania e Francia – spiega -, ma lavoriamo con il mercato tedesco per le componenti meccaniche che poi vanno in America, e con il mercato francese nel fashion. E c’è la farmaceutica danese e olandese. Quindi, il mercato Usa, considerato anche quello indiretto, vale il doppio». Per le Pmi, Corò ipotizza alcune strategie di uscita dall’impasse: «Possono costruire partnership produttive, modelli intelligenti di internazionalizzazione e franchising. Realizzare lì quello che si fa qui, e non servono investimenti enormi. Ma occorre una seria politica di sostegno all’internazionalizzazione. E bisogna diversificare i mercati, intensificare i rapporti con Cina, Medio Oriente, Africa, America Latina, c’è poco altro da fare».

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Anzi, è meno complicato di ciò che può sembrare: «Le imprese attive su più mercati esteri sono quelle che assorbono di più la volatilità delle esportazioni – continua -. Occorre dotarsi di nuove professionalità, tecnologie, competenze interne ed esterne come i temporary export manager, o facendo riferimento a società che offrono servizi all’internazionalizzazione. Ci sono applicativi con l’intelligenza artificiale che accoppiano il prodotto a un mercato, per trovare quello giusto». Insomma, non è detto che coi dazi americani le nostre imprese ci rimettano per forza: «Certi riposizionamenti, anche produttivi, saranno necessari. Anche se credo che, per il principale importatore al mondo, sarà un peso alla lunga insostenibile: è un gioco truccato, durerà poco. Se l’America non importa deve produrre. Ma per produrre servono lavoratori. Quindi Trump che applica dazi, per irrobustire la propria manifattura potrebbe aver bisogno dei lavoratori immigrati, in contrasto con la sua politica migratoria. Oppure attirare imprese straniere per produrre negli Usa. Alla fine, credo che Trump voglia solo costringere i suoi interlocutori a comprare il debito pubblico americano sotto la minaccia dei dazi. Questo è lo scambio».

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