Donne ed economia: il motore inceppato dell’Italia


di Mariagrazia Lupo Albore, Direttore generale Un’impresa

Non è un mistero, né una novità, che le donne siano una forza imprescindibile per l’economia di qualunque Paese. Eppure, in Italia, questa verità sembra restare sospesa tra i buoni propositi e una realtà che stenta a cambiare. Le donne non sono un “di più”, un accessorio gentile da esibire nei bilanci di genere o nelle campagne di comunicazione. Sono il cuore pulsante di un sistema che, senza il loro contributo, si condanna a zoppicare. Ma i numeri, implacabili come sempre, ci dicono che il genere rosa è ancora troppo penalizzato. E questo non è solo un’ingiustizia: è un errore economico che paghiamo tutti.

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Partiamo dai dati, perché sono loro a fotografare la verità, al di là delle parole. Secondo l’ultimo rapporto Istat, il tasso di occupazione femminile in Italia è fermo al 52,5% (dati 2024), ben lontano dalla media europea del 68%. Tradotto: quasi la metà delle donne italiane in età lavorativa non ha un impiego. E non è una questione di scelta. Il divario retributivo di genere resta una macchia indelebile: le donne guadagnano in media il 17% in meno degli uomini a parità di mansione e qualifiche. Se poi guardiamo alle posizioni apicali, il quadro si fa ancora più cupo: solo il 28% dei ruoli dirigenziali nelle imprese italiane è occupato da donne, nonostante rappresentino oltre il 40% dei laureati. È il famoso “tetto di cristallo”, che non si rompe mai del tutto.

Eppure, l’evidenza ci dice che investire sulle donne conviene. Uno studio di McKinsey calcola che colmare il gap di genere nel mercato del lavoro potrebbe aggiungere fino a 12 trilioni di dollari al PIL globale entro il 2025. In Italia, dove la crescita economica arranca da decenni, questo dovrebbe suonare come un appello urgente. Le donne non sono solo lavoratrici: sono imprenditrici, innovatrici, consumatrici. Le piccole e medie imprese, colonna vertebrale del nostro sistema produttivo, vedono una presenza femminile sempre più significativa: il 22% delle PMI italiane è guidato da donne, e queste aziende mostrano una resilienza straordinaria, anche nei momenti di crisi. Ma non basta.

Il problema non è solo nei numeri, ma nelle storie che quei numeri nascondono. La donna che lascia il lavoro dopo la maternità perché manca un welfare degno di questo nome. La professionista che vede la promozione sfumare a favore di un collega meno qualificato. La giovane laureata che si scontra con un mercato del lavoro che ancora, troppo spesso, le chiede di scegliere tra carriera e famiglia. Non sono casi isolati, sono il sistema. Un sistema che penalizza il talento femminile e, così facendo, impoverisce tutti noi.Da Unimpresa lo diciamo con chiarezza: l’economia italiana non può permettersi di lasciare indietro metà della sua popolazione. Servono politiche coraggiose, non pannicelli caldi. Asili nido accessibili, congedi parentali equi, incentivi fiscali per le imprese che promuovono la parità. E serve un cambio culturale, perché i numeri migliorano solo se cambiano le teste. Ferruccio De Bortoli, con cui condivido la passione per un giornalismo che illumina i fatti, direbbe che non si tratta di fare beneficenza, ma di fare i conti con la realtà. E la realtà è che un Paese che non valorizza le donne è un Paese che non cresce. Le donne non chiedono favori, chiedono opportunità. E l’Italia, oggi più che mai, ha bisogno di coglierle. Perché il futuro non aspetta, e noi non possiamo permetterci di arrivare in ritardo.

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