Dai chip di Taiwan ai porti di Panama, così The Donald estorce investimenti


La guerra commerciale scatenata da Trump sta determinando cambiamenti significativi nelle strategie di investimento di grandi gruppi industriali che operano su scala globale. Contrastare i dazi andando a produrre direttamente negli Stati Uniti. Sembra questa la scelta che si appresterebbero a fare una serie di aziende sia europee che asiatiche per mitigare i danni che le alte barriere doganali promesse – o già disposte – dal nuovo inquilino della Casa Bianca potrebbero loro arrecare. È il caso della taiwanese Tsmc (Taiwan Semiconductor Manufacturing Company), azienda leader nel settore dei semiconduttori avanzati, che ha annunciato di voler investire ulteriori 100 miliardi di dollari a Phoenix, in Arizona, aprendo tre nuove sedi produttive, due strutture di confezionamento, nonché un centro di ricerca e sviluppo ad esse collegato.

Ma non solo. Già Stellantis, nei mesi scorsi, facendo da apripista, aveva sposato questo approccio, dichiarando di voler «puntare sugli Stati Uniti» per i propri investimenti futuri (5 miliardi di dollari per il momento), con la riapertura degli stabilimenti di Belvidere in Illinois per la produzione di un nuovo pick-up e col potenziamento delle sedi di Detroit, dell’Ohio e dell’Indiana. Tra i colossi italiani che stanno ragionando su un «aumento della loro capacità produttiva» negli States troviamo invece Pirelli, il cui vice presidente esecutivo Marco Tronchetti Provera nei giorni scorsi ha così argomentato: «Possiamo fare leva sulla nostra leadership nella tecnologia, e nei pneumatici connessi, nei prodotti eco-safety nonché sul nostro brand iconico, grazie anche alla nostra partecipazione nella Formula 1». Non mancano all’appello importanti brand tedeschi come Bmw, Siemens e Volkswagen. Quest’ultima, in particolare, nei mesi scorsi ha rilanciato con altri 800 milioni di dollari la joint venture con Rivian, ex start-up dell’auto elettrica made in Usa, innalzando a 5,8 miliardi l’investimento da realizzare entro il 2027. E non è finita qui. Dal discorso di Trump dinanzi al Congresso di martedì scorso è venuto fuori che la giapponese Nissan e i giganti sudcoreani dell’elettronica Samsung e Lg starebbero addirittura valutando di spostare negli Stati Uniti gli stabilimenti che adesso hanno in Messico, mentre Honda avrebbe già deciso di produrre il nuovo modello della Civic Hybris nello Stato dell’Indiana.

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Non ci sono solo i dazi da aggirare, tuttavia. All’ultimo Forum di Davos svoltosi a gennaio scorso, Trump aveva mescolato minacce e blandizie per attirare investimenti nel suo paese: «Il mio messaggio alle imprese di tutto il mondo è di venire a produrre in America per ottenere le tasse più basse possibili, ma se decidete di realizzare i vostri prodotti non da noi – ed è una vostra prerogativa – dovrete pagare miliardi in dazi». Gli obiettivi sono noti: rilanciare la manifattura americana e ridurre il disavanzo commerciale, a danno di Europa, Cina e paesi confinanti. Il mondo sta cambiando ad una velocità mai vista prima e i debiti con l’estero iniziano a preoccupare anche la nazione che emette la principale moneta di riserva a livello globale. Dazi come arma di ricatto, allora, e concorrenza sleale, soprattutto verso gli «alleati» europei (a rischio di deindustrializzazione), con aiuti di stato alle imprese, sotto forma di agevolazioni fiscali e di sussidi, che in Europa, per statuto dell’Unione, sono vietati.

Non tutti gli investimenti esteri sono però graditi. A fine febbraio, infatti, The Donald ha chiesto al Comitato per gli investimenti esteri di «usare tutti i necessari strumenti legali» per bloccare eventuali investimenti cinesi nei settori della tecnologia e delle infrastrutture primarie, nella sanità, nell’agricoltura, nell’energia. Il discorso è chiaro: la Cina rappresenta il vero rivale strategico degli Usa. Anche per questo, col supporto finanziario di BlackRock – il più grande fondo di investimento del mondo – a Pechino è stato sfilato il controllo di due porti nel canale di Panama. 19 miliardi di dollari per liquidare il colosso di Hong Kong CK Hutchison e rimettere le mani su un’infrastruttura che Washington considera strategica. A ben vedere, più che di protezionismo, bisognerebbe parlare di gangsterismo economico.



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