Il piano di von der Leyen per un riarmo da 800 miliardi non è difesa comune


La presidente di Commissione europea pensa a prestiti europei, abbatte i vincoli del patto di stabilità e autorizza a dirottare persino i fondi di coesione sui colossi dell’industria militare. Il lievitare della spesa non corrisponde a un coordinamento strategico, né a una emancipazione dagli Usa

Ursula von der Leyen ha atteso che Donald Trump annunciasse lo stop agli aiuti Usa per l’Ucraina, per presentare un piano di riarmo europeo che era in lavorazione da tempo e che i leader europei un anno fa le avevano chiesto di presentare già a giugno. Dentro c’è tanto: non sono solo gli 800 miliardi che la presidente della Commissione Ue sostiene che possano essere mobilitati, ma la rottura di vincoli a lungo invalicabili, freni sul debito inclusi. Un cambio di impostazione di tale portata non si fa dall’una di notte – ora dell’annuncio di Trump – alla mattina, quando i cronisti sono stati avvisati che la presidente sarebbe intervenuta (senza però consentire domande). Ciò che può avvenire in una notte è la possibilità per von der Leyen di «meet the moment», cogliere l’occasione, come dice lei stessa nella lettera ai leader in vista del Consiglio di giovedì.

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Significa poter sfruttare leve di emergenza che esautorano il Parlamento europeo e contare su una opinione pubblica desiderosa di riscattare Zelensky dal bullismo di Trump, pur sapendo che né il piano né la strategia soggiacente garantiranno giustizia o emancipazione. Von der Leyen ha evitato in ogni modo di stigmatizzare l’operato di Trump e ribadisce che «relazioni forti con gli Usa sono uno dei miei principali obiettivi». «Vogliamo le più strette relazioni transatlantiche»: il suo “ReArm Europe” non è un piano di autonomia strategica, né è davvero un piano per una difesa comune; si concentra su come liberare i fondi per le spese dei governi più che sull’armonizzazione.

Non a caso i federalisti europei come l’eurodeputato Daniel Freund del gruppo Spinelli notano che «il denaro da solo non crea la difesa europea: non dobbiamo usare fondi europei per finanziare piani di difesa nazionale, incoraggiare la frammentazione o comprare armi americane». Eppure il piano von der Leyen si muove proprio in questa direzione, mentre «servirebbero pianificazione e coordinamento europei, con un controllo democratico del parlamento europeo».

Da dove escono i miliardi

La maxi cifra di 800 miliardi circolata questo martedì non significa che l’Ue metterà a disposizione questo ammontare. Di concreto c’è un nuovo strumento finanziario della portata di 150 miliardi. I restanti 650 sono un dato ipotetico inserito da von der Leyen nel suo intervento: «Se gli stati membri aumenteranno le spese per la difesa di circa l’1,5 per cento del loro Pil, ciò creerà uno spazio fiscale di circa 650 miliardi in 4 anni». La Commissione ha un ruolo anche su questo perché elimina le barriere regolatorie, sia sul patto di stabilità che sull’utilizzo di fondi come quelli di coesione. Sia nel caso dello strumento finanziario apposito, che dell’aumento delle spese nazionali, l’Ue fornisce la cornice per far lievitare le spese militari, ma lascia gestione e strategia al livello nazionale: l’opposto di una difesa comune, in cui si ottimizzano le risorse per avere una efficacia strategica condivisa.

Procediamo con ordine. Il nuovo strumento finanziario con portata fino a 150 miliardi viene attivato facendo ricorso all’articolo 122 del TFEU, uno dei trattati fondamentali dell’Unione, perché questo articolo contiene una sorta di leva di emergenza: in caso di «occorrenze eccezionali fuori dal suo controllo, il Consiglio, su proposta della Commissione, può garantire l’assistenza finanziaria dell’Ue allo stato membro colpito». Basta una maggioranza qualificata (niente veti ungaro-slovacchi) e il Parlamento viene informato a cosa fatta.

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Nella pratica, la Commissione cerca fondi sul mercato, e mette a garanzia il bilancio europeo; uno schema che ricalca l’esperimento dell’indebitamento comune pandemico. Dopodiché sono i singoli stati a poter attingere a quei fondi in forma di prestiti per usarli in ambiti come artiglieria, munizioni, droni, difesa aerea e missilistica, cyber e AI. Nella lettera ai leader, von der Leyen parla di spese da fare «in allineamento con la Nato» e specifica che l’acquisto congiunto, così come la operabilità dei sistemi, «aumenterebbero l’impatto» dei fondi. Ma governi come la Polonia, grande acquirente di Lockheed e armi Usa, hanno già chiarito in questi giorni a von der Leyen che intendono tenere per sé il potere decisionale di spesa.

Quanto ai 650 miliardi dati dagli aumenti delle spese nazionali, von der Leyen ribadisce che proporrà di attivare la «national escape clause» del patto di stabilità: in sostanza, una deroga ai vincoli (sollecitata e apprezzata dai meloniani), purché si investa in difesa.

Di più ai giganti

Von der Leyen annuncia anche che i governi potranno decidere se usare i fondi di coesione per finanziare la difesa. Quei fondi sono alla base dell’integrazione europea: servono a ridurre i divari, a favorire l’inclusione. Difficile immaginare che finanziare giganti industriali come Leonardo, Thales e Airbus rientri in questa missione, ma è quel che accadrà. La presidente vuole favorire il reindirizzo dei fondi di coesione sui colossi delle armi anche «eliminando le restrizioni ai finanziamenti delle grandi imprese in ambito di difesa» e «allentando le regole contro la concentrazione industriale» (cioè anti trust).

Proprio come con altri ambiti del piano di riarmo, la Commissione ci arriva dopo mutazioni graduali: l’esperimento pilota era stato “Step”, che consentiva di dirottare fondi di coesione sulle grandi industrie, e che ora verrebbe «allargato alle tecnologie per la difesa». A novembre, durante la sua audizione, a Raffaele Fitto era stato chiesto conto di uno scoop del FT sul piano di usare i fondi di coesione per le armi, e sardonicamente aveva risposto: «Non è possibile, dato che l’acquisto di armi coi fondi di coesione è vietato».

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